Le politiche dei confini che il governo Meloni tenta di portare avanti sono un emblema del razzismo strutturale che non ha più bisogno di parlare esplicitamente di razza per divenire realtà. Le retoriche di governo che hanno accompagnato l’approdo della Rise Above a Reggio Calabria e il dirottamento di Ocean Viking verso la Francia scrivono il confine tra bianchezza e nerezza come linea di demarcazione tra legalità e illegalità, appartenenza nazionale e incompatibilità perpetua con la nazione.

E così la pretesa superiorità di razza si riproduce implicita attraverso la categoria dai confini invalicabili dello stato-nazione.

Grada Kilomba, artista interdiscplinare e autrice di Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano, ci fornisce gli strumenti per decifrare il meccanismo, che la studiosa definisce «razzismo discorsivo» e che funziona attraverso la costruzione di «catene di associazioni».

Le catene di associazioni, scrive Kilomba, sono spesso osservabili nel dibattito sull’identità nazionale, dove le persone immigrate sono spesso definitǝ come immigratə illegali. Se lǝ immigratǝ sono illegali, sono senza legge; se sono senza legge, sono criminali; se sono criminali, sono pericolosə; se sono pericolosǝ, lə si teme; se lǝ si teme, si ha il diritto di essere ostili o addirittura di eliminarlǝ. Una catena di equivalenti legittima il razzismo fissando le identità al loro posto: immigratǝ – clandestinǝ – senza legge – criminali – pericolosǝ – da temere. Trasferendo il significato da un’immagine mentale all’altra, Il discorso le rende equivalenti.

In questo modo sul corpo nero si inscrive quella che Kilomba chiama «la proiezione bianca» dell’informazione, altrettanto bianca, dell’Altrǝ. Un’immagine «spaventosamente deformata» del corpo nero. Un processo psicologico e cognitivo per nulla “neutro”, ma pienamente politico e da chiamare con il proprio nome: razzismo.

 

«Io non ho la storia a cui assomiglio. Sento di non avere del tutto una storia perché la mia storia, che è tedesca e afro-tedesca, non è accettata. Non vogliono sentirla né saperne» [dice Alicia, una delle donne intervistate da Kilomba].

Sembra che l’unica possibilità di esistere sia attraverso un’immagine alienata di se stessə. Il momento in cui lǝ soggettǝ Nerǝ è ispezionatǝ dall’esterno come un feticcio, un oggettǝ di ossessione e desiderio, è descritto da Frantz Fanon come un processo di «totale spersonalizzazione» (Fanon 2006, p. 63) in cui si è costrettə a sviluppare una relazione a sé e recitare il copione di un sé che è stato scritto dal colonizzatore, producendo in se stessə la condizione di scissione interiore della depersonalizzazione. Si comincia a guardare a se stessə come se si stesse al loro posto: «Sento di non avere del tutto una storia», conclude Alicia. Ha iniziato a esperirsi come Altrə tra lə Altrə – isolata in una società bianca.

Memorie della piantagione. Episodi di razzismo quotidiano, p. 111.