Siamo le case editrici Armillaria, Capovolte, Edicola Ediciones, effequ, Liberaria, Pidgin, Racconti edizioni, e questi sono i motivi per cui – alcuni di noi già da tre anni – non partecipano alla più importante fiera libraria di natale, quella che si proclama dedicata alla Piccola e media editoria.
Cosa significa, nel 2024, “Piccola e media editoria”? Secondo l’Associazione Italiana degli Editori (AIE) si tratta di una categoria di fatturato. Vi rientrano le aziende editoriali che fatturano meno di 10.000.000 l’anno (sì, dieci milioni all’anno). Imprese delle dimensioni più varie, alle quali viene richiesto di comportarsi come i grandi gruppi editoriali. Con un’unica parola d’ordine: produrre più libri possibile. Per garantire un rifornimento costante e un’esposizione abbondante nelle librerie, il meccanismo porta le case editrici a fornire nuovi libri in continuazione, libri che potranno essere resi e che, per sopperire al disavanzo per la mancata vendita, dovranno essere sostituiti con nuovi titoli. In pratica, non si va mai in debito, a patto di produrre sempre.
Il meccanismo della resa garantisce da un lato un rifornimento costante, dall’altro la possibilità di generare profitto anche dalla non-vendita, per le aziende che stoccano e distribuiscono libri per conto delle case editrici. Se non fosse che la distribuzione in Italia è un comparto che appartiene ai tre grandi gruppi editoriali (Mondadori, Giunti, ma soprattutto Feltrinelli-Messaggerie, o MeF, che detiene da solo la maggior parte della distribuzione). Quasi impossibile sfuggire.
E dove sta la “qualità”, così tanto decantata nell’immaginario legato alla piccola editoria? Non c’è, e anche per altre ragioni. Come la retorica della “bibliodiversità”, ovvero che la diversità fra i libri sia di per sé un tesoro, e che qualsiasi libro prodotto è bello solo perché è un libro. Ne deriva una sovrapproduzione di titoli in cui è difficilissimo districarsi.
L’ultima indagine Istat del 2022 ci dice che in Italia si producono più di 80mila titoli nuovi all’anno; più di seimila titoli al mese; più di millecinquecento titoli a settimana; più di duecento titoli al giorno. Circa dieci titoli all’ora. Pur cercando di sfoltire il dato dalle pubblicazioni prodotte per motivi diversi dalla vendita in libreria, resta comunque una cifra difficilmente gestibile, soprattutto per librerie e lettori. E l’idea di “bibliodiversità”’, pur buona di fondo, non fa che giustificare quel monopolio, di cui la “Piccola e media editoria” è serbatoio. Perché se i gruppi editoriali producono molto, le piccole e medie case editrici, che producono più di quanto potrebbero, sono tantissime, e rappresentano un’enorme miniera per la distribuzione.
E qui arriviamo alla sedicente “Fiera della piccola e media editoria”, organizzata a Roma, all’Eur, dall’Associazione Italiana degli Editori: si chiama Più Libri Più Liberi. Più libri! Proprio quando l’intossicazione del mercato è data proprio dai troppi libri. La “Piccola e media editoria”, schiacciata dal meccanismo, diventa semplicemente una categoria funzionale all’incremento dei titoli. Ci chiediamo se la stessa AIE non sia consapevole della tossicità della sovrapproduzione libraria o ne sia consapevole e desideri incoraggiarla. Una logica iperproduttiva che si riflette anche nella logica della proposta culturale della fiera, diventata un casellario da riempire in modo quasi indiscriminato e disattento, con pochi eventi curati da una direzione artistica (che spesso non guarda agli editori presenti in fiera ma ai grandi nomi di richiamo, innestando l’altrettanto tossico meccanismo che solo il nome richiama gente) e molti buttati via in tempi e spazi morti. La brutta vicenda degli ultimi giorni si mostra figlia della medesima logica di arroganza e disattenzione: se ogni cosa vale tutto allora tutto vale nulla, e l’intitolazione della Fiera a una giovane uccisa dalla violenza patriarcale si accosta senza problemi alla presenza di un autore denunciato dalla ex compagna per maltrattamenti.
Noi non vogliamo questo. Crediamo che la “Piccola e media editoria” possa essere l’editoria che si permette di produrre meno: non bibliodiversità, ma probabilmente bibliomoderazione. Del resto, il mestiere editoriale si basa più di tutto su un atto chiaro: la scelta. Chi pubblica sceglie. E non sceglie solo cosa pubblicare, ma anche come e soprattutto quanto. Se la regola è solo produrre, scegliere non serve più a niente.
Forse, più che chiamarla “Piccola e media editoria” sarebbe meglio parlare di “Editoria artigianale”. Una modalità che si pone in contrasto con l’editoria industriale, proponendo modalità lavorative, ma anche logiche differenti, liberandosi dall’obbligo di rincorrere la fornitura continua. Con l’attuale mercato, tuttavia, può permettersi di produrre meno solo chi rinuncia ad avere personale, tagliando sui costi. Molto lavoro si potrebbe creare anche avendo più distribuzioni, non dovendo rispondere a un monopolio. Eppure, le realtà che producono libri in Italia sono le stesse che li distribuiscono, e le stesse che li vendono, laddove le principali catene di librerie appartengono proprio ai principali gruppi editoriali.
Senza dimenticarci di una parte integrante del meccanismo distributivo e dunque editoriale, il macero, che ogni anno porta a distruggere centinaia di tonnellate di libri, per serena ammissione delle distribuzioni stesse. Un prezzo da pagare, come lo sono le centinaia di libri di autori che sognano gloria mandati in sacrificio per creare lo spazio per un (possibile) Best seller.
Se questa logica è valida per l’editoria industriale che l’ha creata, per noi no. Se una fiera che si chiama Più Libri Più Liberi – inneggiando già nel nome alla quantità di produzione – vuole celebrare l’associazione tra questo meccanismo e la “Piccola e media editoria”, noi non ci stiamo. Rivendichiamo la nostra dimensione artigianale, il diritto alla scelta, a riportare l’idea editoriale alla sua autenticità o semplicemente al suo mestiere, senza cascare in tranelli e retoriche. Vogliamo produrre libri davvero diversi, che siano supportati da un criterio di scelta. E vogliamo potercelo permettere, perché fare questo mestiere non può essere soltanto un privilegio.
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